Venerdì, finisco un po’ prima col lavoro e alle cinque esco in bici. L’Estate umida della Thailandia centrale ancora fa di ogni pianura una salita, a quest’ora, ma fra due curve inizia la campagna e lì è tutto verde e più fresco, si può fare.
Appena arrivi a Lam Luk Ka la città cambia ancora, anzi, sparisce proprio. Le case basse colorate lungo soi sempre più stretti sono le stesse di Sai Mai, stessi due tavoli sul marciapiede da chiamare ristorante, stessi bambini che giocano in strada, stesse vecchine minuscole che arrancano in sella a bici stracariche di cartoni, stessi sorrisi, stessi occhi. Ma a Nord di Hok Wa, appena oltre il tempio, finisce Bangkok e inizia Pathum Thani, ecco tutto, la sola differenza.
Visto che sono qui, vado a dare un po’ fastidio a Tum. Tum ha un negozio di chitarre sotto casa, aperto per scherzo e per passione qualche anno fa. Ora di quel negozio vivono lui, sua moglie, sua sorella, due dipendenti, e un numero imprecisato di bambini. Oggi Tum non c’è, dice il ragazzo che lo sostituisce, poi cortese mi allunga una bottiglia d’acqua, vedendomi sudare pure dalle unghie. Lo ringrazio, saluto, e riprendo la strada verso Sud.
Di colpo la campagna si fa scura, si accendono i lampioni, mi accecano i fari.Quando arrivo a Wat Koh è già notte, e tutto profuma di canfora e tutto è blu. Giro al mercato, fame, mangio qui. Un pesce enorme appena tolto dal fuoco, un piatto di som tam, un mango appena troppo maturo. Me la prendo comoda, tanto casa è qui dietro, due kilometri, non di più.
A metà strada, le prime gocce. Inutile affrettare il passo, fra due secondi verrà giù il diluvio, come usa qui. Infatti il diluvio arriva, e sulle prime è anche piacevole, rinfresca, l’afa sparisce. Poi però sparisce anche la strada, spariscono i cani che avevo alle calcagna, le case, tutto. Non ho idea di dove sono finito, forse ho girato troppo presto, forse a sinistra invece che a destra… non è Sai Mai, la Thailandia, il pianeta Terra… somiglia più al fondo dell’oceano su Marte, o a come sarebbe se Marte ne avesse uno. Mi fermo, in mezzo alla strada vuota, sotto al diluvio, e aspetto. Aspetto che smetta, che torni l’afa, o al limite di annegare prima. Non ho un riparo, neppure la musica, però in compenso ho freddo da vendere, e - per la prima volta da quando sono partito - anche una certa dose di nostalgia che somiglia alla solitudine.
Dopo un milione d’anni, o forse più, lontano, in fondo al buio, una lampadina, forse il fanale di un motorino. Attesa. Fa’ che sia un motorino, fa’ che sia un motorino. È un motorino! Mi sbraccio… forse mi ha visto… si ferma qui. I due ragazzi lì sopra hanno una storia personale decisamente “importante”, si vede bene, pure senza luce. Mi guardano come fossi la cosa più assurda che hanno mai visto, come si guarda uno a cui - per crederci - non basterebbe chiede un milione di volte “e tu come ci sei finito qui???”.
Provo a spiegargli dove abito, sembrano perfino più perplessi di prima, poi il ragazzo seduto dietro alza il braccio e con il dito indica un punto oltre la mia schiena. Ora la pioggia ha quasi smesso, di colpo com’era venuta. Mi volto. Sono a duemassimotrecento metri da casa. Mancava poco, bastava niente… la storia della mia vita.
Tre colpi di pedale, cancello, veranda, scale, doccia, scoppio a ridere. Mi butto sul letto e penso, qualcosa mi ronza in testa da prima. Una sera, in paese, al buio, in camera mia. Pioveva forte, forte come mai aveva piovuto. E sopra ai tuoni, sopra alla pioggia contro il vetro, nelle parole degli amanti, dentro i loro sospiri, c’era musica.